Il Ritratti Festival di Monopoli celebra gli anniversari di Dante e Astor Piazzolla con l’attore Alessandro Haber, il Trio Accord e lo spettacolo «Dantango», nel quale il sommo poeta incontra l’arte del grande musicista argentino. Un’unione in programma martedì 22 giugno (ore 21.30) in piazza Palmieri attraverso i testi di Luis Borges e Horacio Ferrer, due sudamericani accomunati da uno straordinario legame di sentimenti e collaborazioni.

La recitazione di Alessandro Haber conduce lo spettatore attraverso un lungo viaggio di avvicinamento all’Argentina, lontana terra di emigranti, luogo di speranze, nostalgia, desolazione e tanta musica. Attraverso numerosi capolavori, come i cicli delle Baladas e delle Milongas, la voce di Haber rimane anche in silenzio, lasciando la parola alla sola musica, suonata dal Trio Accord composto da Gennaro Minichiello (violino), Giovanna D’Amato (violoncello) ed Ezio Testa (Fisarmonica), che rendono omaggio ad Astor Piazzolla, padre del «tango nuevo», nel centenario della nascita, coadiuvati dai ballerini Yanina Quinone e Neri Piliu.

«Tutto ebbe inizio poco prima della dittatura. Ero impiegato in una biblioteca del quartiere Almagro. E iIl caso, ma non esiste il caso, ciò che chiamiamo caso è la nostra ignoranza della complessa meccanica della casualità, mi fece imbattere in tre piccoli volumi nella Libreria Mitchell, oggi scomparsa, e che mi evoca tanti ricordi. Quei tre volumi erano l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, tradotti in inglese da Carlyle». Con queste parole, pronunciate durante una conferenza tenutasi il 1° giugno del 1977 a Buenos Aires, Borges racconta il suo primo incontro con la «Divina Commedia», opera che leggerà molte volte, per tutta la vita, in edizioni diverse e a cura di commentatori differenti. Arriverà a sostenere che l’unico italiano che conosceva era quello delle terzine dantesche, lette e rilette, sia in silenzio che ad alta voce.

Pochi sanno che da questo fortunato incontro nascerà, qualche anno dopo, uno dei racconti più famosi dell’autore argentino, «El Aleph». Un lavoro nel quale aleggia, presenza non reale, ma pregnante, la Beatrice di Borges. Beatriz Viterbo è, infatti, la donna della quale l’io narrante – alter ego di Borges – s’era innamorato. E nonostante lo scrittore fosse stato respinto, dopo la sua morte quell’amore si trasformò in devozione, alimentata da un desiderio insensato di contemplazione dei numerosi ritratti della defunta appesi ai muri della casa di famiglia in calle Garay, motivo che lo spinse a coltivare ancora per anni i rapporti con il padre di lei e col cugino Carlos Argentino, gli unici abitanti rimasti in quella casa. Ma leggendo i «Nove saggi danteschi» di Borges, apprendiamo che Beatriz in realtà è una trasposizione della ben più nota Beatrice Portinari, la giovane donna di cui Dante s’innamorò, da cui fu rifiutato e con la quale forse non scambiò mai neanche una parola. Le cronache dell’epoca narrano che Beatrice andò in sposa ad un banchiere fiorentino e morì poco dopo, a soli ventiquattro anni, lasciando un vuoto inconsolabile nel cuore di Dante. L’«Aleph», punto di contatto tra Dante e Borges, altro non è che la rappresentazione borgesiana dell’Empireo dantesco, di quel luogo dove tutto è perfetto, vicino e lontano, al contempo presente e passato. Perché lì tempo e lo spazio non esistono. Il tempo e lo spazio “sono”.

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